Da piccola l'autunno l'ho sempre odiato: era una specie di tortura. L'inizio della scuola, le sciarpe di lana che prudono, la tisana all'ortica e il freddo porco dell'alto adige. E poi c'era mia madre che, puntuale come un gallo che rompe i gabbassi al sorgere del sole, l'ultimo giorno di agosto mi ripeteva sempre la stessa frase: presto inizia la parte seria della vita.
Un trauma infantile, l'autunno, insomma.
Che poi non è mica così brutto. Anzi. Ora, dall'altezza dei miei ventisei anni emmezzo, posso dirvi che l'autunno è una gran cosa. Ecco una lista delle cose che è più bello fare in autunno:
1. preparare la torta pere e gorgonzola, come la fanno la Rebecca e la Lucia di ZOO <3 insieme a under the tree mag. If in doubt, bake a cake.
3. scrivere, al mattino, magari perdavvero su carta e con la penna stilografica, mentre sorseggi un caffè lungo. Come dicono quelli di Internazionale.
(Leonardo Patrizi, Getty Images)
4. Fare un ordine di the e tisane nel paese delle Meraviglie di Valeria, erborista con macchina fotografica che ha creato Melissa Torino, erboristeria con salotto a sessantacinque passi dalla mole.
5. scoprire donne norvegesi meravigliose con collezioni di scatti su instagram che andrebbero incorniciati uno per uno, come quelli di Benedicte:
6. bere chai latte fumante
7. il vino rosso corposo che accompagna una lettura nuova
8. fare all'amore sotto il piumone
9. andare al cinema
10. praticare yoga al caldo, tipo trentanove gradi emmezzo
11. fermarsi in un cafè a parlare con amici belli che condividono la mia sensibilità per le cose sottili e i significati invisibili
12. ascoltare ad occhi chiusi un brano di Sam Smith tenendosi per mano
13. leggere casa facile, a letto. Oppure sul cesso, che è ancora più poetico.
14. sognare cose belle e progetti stupendi.
15. essere riflessivi e cercare di raggiungere un livello sempre più profondo di conoscenza di Sé
16. farsi crescere i capelli
17. andare in libreria. Ok questa è bella sempre ma in autunno ancora dippiù.
Da vecchia sarò saggia e risoluta. Sarò una di quelle signore che a settembre fanno le conserve di pomodori e le marmellate ai fichi. Sarò capace di comprare una scatolina di cioccolatini fatti a mano e mangiarne solo uno al giorno. Sarò una di quelle che il sabato lo dedicano alle pulizie di casa e la domenica al riposo e agli ospiti. Sarò talmente equilibrata psicologicamente e in pace con il mio aspetto che non sentirò il bisogno di tingermi i capelli. Ascolterò Maria Callas a tutto volume mentre impasterò i canederli. Sarò illuminata e risoluta tanto che le persone verranno da ogni dove a raccontarmi la loro storia per chiedere la mia opinione. Sarò ricca sfondata, con l'autista personale e la personal shopper. Sarò bella come il sole, tipo Meryl Streep. Sarò come una di quelle nonnine dei cataloghi per le assicurazioni sulla vita.
Va bene, forse non sarò proprio così. Qualcosa mi dice che non sarò mai organizzata, che non sarò mai capace di fare le conserve di pummarola e che il sabato certamente non mi metterò in ginocchio a pulire il parquet. Non sarò certamente la nonnina perfetta e non sarò mai capace di lavorare a maglia e giocare a carte, che lavorare a maglia mi fa venire un nervoso di quelli che per farmelo passare ci vogliono tre spritz campari e una cena di pesce, e giocare a carte mi pare la roba più inutile sulla faccia della terra (ad eccezione del poker, ovviusly, quella è una dimensione parallela). Però ci sono alcune cose che spero di imparare a fare da "grande" e da "vecchia".
Innanzitutto, spero che sarò molto più stronza di adesso. Spero che avrò imparato a "mangiare la faccia", come si suol dire con eleganza, a chi mi mette i bastoni tra le ruote, terrorizzando la vittima fino al midollo e inducendola ad emigrare verso un altro continente. Spero che avrò imparato ad essere più egocentrica e spero che avrò imparato a dichiarare i miei bisogni con più fermezza e convinzione.
Poi spero di aver imparato ad amare. Spero che avrò imparato a vivere le mie faccende amorose con serenità e senza salti mortali logici. Spero che avrò imparato ad amare a prescindere dall'incertezza e dalla paura, spero che avrò imparato ad amare senza aspettative. Spero che avrò imparato a dare importanza alla gioia nell'amore e spero che avrò imparato a costruire senza distruggere per fare tutto dall'inizio. Spero che avrò imparato a riconoscere la differenza tra l'innamoramento di una storia amorosa e l'innamoramento di una persona. Spero che avrò imparato a leggermi dentro e spero che avrò imparato a capire che cosa è bene per me in amore.
Spero che avrò imparato ad usare una forma di assertività che non ferisce e spero di aver imparato a piangere molto di più. Spero di avere imparato a non riempire i momenti vuoti e spero di aver imparato ad accettare il silenzio. Spero che avrò imparato a proteggere l'integrità della mia personalità e quella dei miei cari. Spero di aver imparato a comunicare il mio onesto e autentico tentativo di comprendere l'altro. Spero di aver viaggiato tantissimo, spero di aver visto il mondo e spero di aver speso ogni singolo centesimo dei miei averi per viaggiare, incontrare il diverso, vedere nuovi mondi e allagare il mio orizzonte. Spero che sarò ancora curiosa come lo sono ora, spero che avrò ancora tutta questa voglia di andare in biblioteca e riempire lo zaino di saggi, manoscritti e albi illustrati. Spero che avrò ancora voglia di osservare il mondo e le persone e i contesti come lo faccio adesso, un po' da fuori e un po' da dentro. Spero che mi rimarrà un pizzico di ingenuità, solo un pizzico, per mantenere intatto lo stupore che oggi riempie le mie giornate. Spero di mantenere aperto il mio cuore, spero che nonostante tutti gli stronzi che mi capiteranno avrò ancora fiducia nelle amicizie, nelle collaborazioni e nei racconti di altre persone. Spero di mantenere flessibile la mia mente, spero di riuscire ad affrontare i cambiamenti con consapevolezza e apertura alla novità. Spero che avrò ancora voglia di crescere, di imparare e di conoscere.
Queste parole sono dedicate a Flavia, la mia "vecchia" preferita. Ma non solo la mia, visti gli applausi che si è beccata quando ha parlato in piazza grande a giugno. <3
Nella nostra testa, ogni volta che facciamo un'esperienza, quindi in pratica durante ogni singolo istante della nostra esistenza, si modifica la nostra architettura neurale. In base a ciò che percepiamo, alle conclusioni che elaboriamo consciamente o senza esserne consapevoli, la disposizione dei neuroni nel nostro cervello si adatta alle nuove circostanze. Andiamo a fortificare connessioni e vie di comunicazione che si confermano nella loro correttezza e utilità e tagliamo sinapsi che sono inutili. Man mano che diventiamo più esperti nell'esercizio che per semplificarle le cose ora chiamo "vivere", riduciamo sempre di più la rete di connessioni neurali in base alla nostre preferenze, a ciò che si è rivelato utile, alle evidenze e alle credenze. Da piccoli nasciamo con una quantità di sinapsi neanche paragonabile a quella di un adulto, perché da piccoli abbiamo milioni di possibilità di "costruire" la nostra rete di connessioni, mentre da grandi abbiamo semplificato le cose creando grandi autostrade del pensiero, di quelle grosse a quattro-cinque corsie come ce l'hanno in ammmerica, perché ormai abbiamo creato vie per semplificare l'analisi del mondo. Siamo minimal, insomma.
Solo che questa storia di essere minimal non è poi tanto bella perché a forza di creare preferenze e abitudini, andiamo a costruire rigidità del pensiero e fissità funzionali. Con ogni alternativa di pensiero o di comportamento che decidiamo di abbandonare, prendiamo letteralmente una sinapsi e la buttiamo nella raccolta differenziata (non quella della tares, amici. Quella biologica per davvero, dico). Quindi a forza di buttare via neuroni e sinapsi che non ci servono, ci riduciamo a qualche povera "autostrada" neurale e finisce che da vecchi diventiamo burberi e rigidoni.
In effetti questa storia è abbastanza triste. Più la nostra vita diventa ricca di esperienze e più diventiamo anziani, saggi e risoluti, più si impoverisce la nostra materia grigia. I neuroni ci fanno ciao ciao con la manina e se ne vanno per la loro strada. Quella che nei piccoli è plasticità cerebrale, nei grandi rischia di diventare rigidità funzionale. Facciamo le robe sempre allo stesso modo perché ci sentiamo sicuri nel farle così. Abbiamo bisogno di farlo, perché la nostra identità si costruisce sulle certezze rigide come i mattoncini della lego, impilate una per una nella nostra testa e considerate come assolute. Cioè il concetto di certezza equivale a "la verità" e "la realtà". Robe che ovviamente non esistono, ma questa è una storia lunga.
Certezze, insomma. Certezze che ovviamente sono artefatti della nostra mente. Certezze che per fortuna non sono così assolute come crediamo e vengono messe in discussione ogni volta che ci confrontiamo con le idee di altre persone. Succede che piano piano, alcuni di più e altri di meno, siamo capaci di aprirci alla prospettiva altrui e guardare il mondo con altri occhi. Se abbiamo una forma mentis flessibile siamo in grado di metterci nei panni di una persona e percepire il mondo con le sue chiavi di lettura. E magari, per un brevissimo istante, diventiamo simili all'amico fidato...
Questa forma di apertura mentale non richiede di rinunciare alla propria identità, anzi... è proprio nel momento in cui mi apro al tuo modo di vedere il mondo e provo a guardarlo con i tuoi occhi, che riesco a definire con più chiarezza chi sono io, quali sono i miei limiti, quali sono i miei punti di forza. Crescere significa anche fondersi con l'altro, nel senso di fusione delle idee e delle prospettive e dei valori. Non in via definitiva, ovviusly. Però io intanto mi diverto a guardare il mondo con gli occhi dei miei amici, mi diverto a passare le serate con il mio amico Riki che mi da il via libera a comportarmi come una camionista rozza, a fare la pettegola con le amiche osservando come sono vestite le signore della bolognabene ma anche a seguire in silenzio i rituali dei miei nonni scanditi dalla tradizione. Tre situazioni in cui, vista da fuori, potrei apparire come una persona completamente diversa. Eppure no, non è così: come tutti, sono molteplice e non univoca. Mi piace sperimentarmi, giocare, essere permeabile a nuove prospettive, senza perdere il mio chiaro filo conduttore. Non mi perdo per strada, mi apro a mondi nuovi. (E cerco di non buttare via inutilmente sinapsi, che magari un giorno mi potrebbero tornare utili)
Per essere violenti ci sono tanti modi, io per esempio da piccola prendevo a calci e pugni i maschi, oppure li rincorrevo e tiravo giù le loro braghe per vedere cosa ci fosse sotto ("sotto" c'erano le mutande degli antenati di Peppa Pig, per la cronaca). La mia carriera di bambina violenta è iniziata a circa diciotto mesi emmezzo, quando ho dato il mio primo pizzicotto a un bambino biondo di sei anni che, francamente, mi stava fra i piedi e mi impicciava nei giochi. Quella è la mia faccia post pizzicotto, catturata da mio padre che probabilmente al tempo si sarà fatto il segno della croce e avrà pensato di aprire quella bottiglia di chianti che aveva tenuto da parte per le occasioni speciali.
Violenza, insomma. Alla fine poi me la sono cavata, la mia fase misantropa è durata poco e sono passata a una forma di aggressività più elaborata e celata, se non contiamo quelle due volte in cui ho mandato letteralmente "affanculo" il mio oculista e ho dato del "brutto maiale arrostito" al papà di una mia amichetta.
In casa mia non si è mai alzata una mano contro donne e bambini e non ho mai preso una sberla in vita mia (forse mi avrebbe fatto bene). Da grande ho dato qualche sberla, due tre volte, per riportare alla ragione dei sensi chi aveva perso la lucidità durante una litigata o per ragioni simili. Tutto qui, niente di che, ma l'assenza di aggressività fisica non significa che io non abbia avuto da combattere contro soffocanti e opprimenti violenze. Io ce l'ho a morte con la gente che non ha il coraggio di avvicinarsi a te, guardarti negli occhi e dirti "mi fai schifo, vediamoci fuori che ti voglio tirare un cazzotto". Io ce l'ho con la gente che si nasconde dietro la tipica frase che "le donne non si toccano neanche con un fiore" e poi dopo ti aggredisce e ti violenta, non con le mani, ma con gli altri dieci milioni di modi che ci sono per fare del male a una persona.
Qui sotto, due esemplari di Uomini che di violenza ne sanno qualcosa.
Non ce l'ho con gli uomini, anzi. Credo che le donne siano in grado di essere di gran lunga più cattive, sottili, furbe, spietate, ingannevoli e false di quanto un uomo sia capace di percepire.
Ci sono così tante forme di violenza che non so neanche come sintetizzare la mia prospettiva. Nel brodo ci metterei di sicuro il classico professore che seduce la studentessa giovanissima, la gente che ai tuoi occhi ti riempie di baci e abbracci e alle tue spalle ti augura peste e corna e il narcisista che ti sfrutta per poi liberarsi di te appena sei inutile ai suoi fini. Poi mi da orrendamente fastidio la violazione della sfera privata di una persona, come andare a raccontare in giro ciò che ti ha rivelato in confidenza oppure parlare di circostanze della sua vita pubblicamente e sul web, senza avvertirla ne chiedere il permesso di farlo. Mi da molto più fastidio la violenza celata di quella fatta alla luce del sole perché la violenza celata è una roba da pusillanime e codardo, una roba che puzza di marcio, una roba spregevole. Una roba come i giochini psicologici, quelli in cui ti inganno, ti faccio sentire in colpa, ti induco a fare una decisione o compiere un'azione che va contro i tuoi ideali. I giochini in cui ti dimostro che ho il potere su di te e ti costringo a seguire le mie regole sono qualcosa di penetrante e sottile. Elaborati con cura, oppure parte integrante del modus operandi di una persona, sono disarmanti come una malattia che non si cura perché sono accompagnati dalla paura.
Insomma oggi mi va di fare un inno alla violenza vera, quella che allo stato puro ha un che di poetico, quella che una litigata la risolvi con due urli e, se proprio scappa, uno schiaffo e amici come prima. Che, per quanto posso, preferisco la compagnia del cane che abbaia ma non morde, perché la gente zitta zitta e buona buona, quella che ti osserva da lontano senza annunciare la sua presenza, quella che ti tiene monitorata e che vuole vedere come fai le cose, mi sa di un pericoloso che è meglio farci un bel giro lungo attorno. Perché la violenza sottile, quella che è crudele perdavvero, è qualcosa che ti richiede anni per disintossicarti e che cambia brutalmente il modo in cui guardi il mondo e le persone. La violenza sottile è qualcosa di cui ti accorgi pezzo per pezzo, e a distanza di tempo si aggiungono tasselli alla tua ricostruzione dei fatti, tasselli di cui ti accorgi solo una volta che il tornado è passato e hai la calma e il silenzio necessari per guardare in profondità e riflettere sui dettagli.
- all your mental armor drags me down
nothing hurts like your mouth
your loaded smiles
pretty just desserts
wish it all for you -
Purtroppo o per fortuna ho un modo di guardare il mondo che mi rende impossibile concentrare l'attenzione su ciò che in generale cattura l'occhio delle persone. Per esempio, quando tutti guardano Alba Rohrwacher alla cerimonia di chiusura della 71. Mostra d'arte cinematografica di Venezia, le mie capacità attentive si fossilizzano sulla mimica dei fotografi in sottofondo. Potrei passare giornate intere girando per gli spazi del film festival e non fare altro che osservare la gente e prendere appunti sul mio moleskine giallo, dato che di scene pittoresche ne ho viste abbastanza da nutrire il mio immaginario fino a Natale.
Insomma, mentre Alba si impegna per fare quel dolce sorrisino da bambi indifeso, io mi fermo a guardare le facce di quei signori vestiti tutti di nero (è un dress code, mi è stato riferito) e ai miei occhi si apre un mondo: i fotografi. Che esemplari spettacolari da osservare in azione! E che intrigante spettacolo sono in grado di fornire, forse inconsapevoli di essere osservati mentre osservano, oppure ben coscienti della cosa e intenti a imitare l'espressività delle star sul red carpet che, appunto, stanno fotografando. Ci sono quelli concentrati concentrati, quelli che girano l'obiettivo dall'altra e si rifiutano di scattare per chissà quale motivo, quelli che ti guardano dall'alto in basso, quelli tanto spiazzati dalla bellezza di qualcosa che si sono dimenticati di scattare, quelli che si nascondono dietro obiettivi con un diametro pari alla loro circonferenza cranica, quelli che stanno al telefono con i capi che probabilmente vogliono avere le loro foto in quel preciso istante, quelli che sudano come se fossero a una lezione di bikram yoga sotto alle loro giacche doppiopetto, quelli che per vederci bene stringono gli occhi e pare che abbiano la puzza sotto al naso e quelli con la faccia tesa che pare abbiano visto il nemico (oppure un preda, no si può sapere con certezza).
(in foto, la mia amica ed eccellente fotografa Samina Seyed al lavoro sul red carpet veneziano)
Tutte queste affermazioni rimarranno proiezioni del mio mondo interno, ma c'è qualcosa che durante la mia brevissima permanenza al Lido di Venezia mi pare di poter dire con certezza: tra i fotografi vince chi urla di più. Esili fotografe bionde con vestitini di seta e delicate scarpe con il tacco a spillo si trasformano nel giro di una frazione di secondo, modalità lupo mannaro per intenderci, e cacciando urli alla portata di un gondoliere a fine giornata e dopo quattro spritz, per far girare la testa alla star di turno. Poi ci sono quelli che la sera stanno sui libri, studiano tutti i nomi di chi mette piede sul tappeto rosso e hanno una memoria di ferro per cui riescono a chiamare per nome tutte le loro prede. E poi ci sono anche quelli che la sera fanno altro, magari passano le notti su photoshop a mettere a posto il girovita di Alba Rohrwacher, che pesa quarantaquattro chili, oppure a sistemare la pelle dell'adorabile bimbetto di The President di Makhmalbaf, o qualsiasi altra cosa, fatto sta che le star le chiamano dicendo "mister, here, on the left!" e "miss, to your right, please!"
I fotografi sono vestiti tutti quasi uguali e una delle poche cose che li differenzia è lunghezza e diametro dell'obiettivo. Cosa che deve essere un tema molto discusso perché più di una volta ho notato signori in giacca e papillon avvicinare le loro attrezzature per un sano e vivace confronto di peso, portata e potenza dei macchinari. Poi, ho notato un dettaglio teatrale: un gruppo di fotografi come quello di ieri sera sul red carpet di Venezia è capace di entrare in simbiosi assoluta, al punto mi muoversi in maniera sincronizzata, attrezzatura fotografica inclusa. La star accenna un passo a destra e loro, in perfetta armonia, tipo una compagnia di danza contemporanea, assumono la stessa postura, la stessa espressione ed eseguono gli stessi movimenti, in perfetta sincronia.
Ci si potrebbe scrivere una tesi, sulle dinamiche di gruppo dei fotografi. Io sarei capace di passarci i tre anni di dottorato a studiarmeli, lo ammetto. Sono qualcosa di troppo affascinante: in certi momenti sono aggressivi come leoni mentre cercano di catturare le loro prede e in altri momenti sono docili e pieni di stupore per ciò che hanno davanti agli occhi. Hanno una forma mentis che inevitabilmente è condizionata dalla loro professione, sono capaci di vedere dettagli di cui noi umani neanche conosciamo l'esistenza e hanno delle capacità percettive potenziate dal loro occhio fotografico. A volte sono più seri e concentrati delle loro ombre, mentre altre volte sono gioiosi come dei bambini, per esempio quando "giocano" al red carpet dopo che se ne sono andate le star e si fotografano a vicenda su questo leggendario tappeto rosso. Sembrano tutti molto appassionati del loro lavoro e anche un bel po' drogati dall'adrenalina da film festival.
Tra il cinque e il ventisette gennaio del 1957, durante una mattina fredda nella Napoli del vomero, quella che per arrivarci devi prendere la funicolare ripida ripida fatta di legno scuro con le porte e il pavimento che tremano, in una casa senza riscaldamento nasce mio zio Riccardo, prematuro, sul tavolo di marmo della cucina di casa. Una volta sistemato il piccolo in una specie di fascia (a mo' di incubatore, s'intende), il medico fa per andarsene. Solo che, a insaputa di tutti, c'era ancora una persona che doveva nascere: mio padre. E così, invece di un solo bimbo prematuro, ce n'erano due. E visto che non si sapeva se sarebbero sopravvissuti o meno, nessuno si è preso la briga di comunicare all'anagrafe il loro arrivo. Finché, ventidue giorni dopo, non è arrivato zio Peppino che ha pagato una gran multa per il ritardo. Così la nascita dei gemelli è stata segnata il 27 gennaio, per comodità, dato che era anche il compleanno della nonna.
Questa è la Napoli che mi racconta mio padre, questa è la Napoli che conosco dalle storie di mia nonna, questa è la Napoli che mi narrava mio zio. La Napoli che vibra di cultura e di poesia, come sempre piena di gente senza una lira in tasca per comperare un pezzo di pane, ma con il cuore pieno dei valori della tradizione. La Napoli chiassosa e urlante, quella in cui già allora si buttavano le lavatrici giù dai balconi la notte di capodanno. La Napoli in cui crescevi per le strade giocando a pallone con i bambini del quartiere. La Napoli fatta di musicisti virtuosi che suonavano per le strade e che aprivano le loro case agli allievi. La Napoli in cui il tempo di un caffè può durare quanto il Parsifal di Wagner, perché fare o' cuppetiello perfetto richiede il suo tempo.
http://www.youtube.com/watch?v=OX7XhLpW7Tc
Questa è la Napoli che ho imparato ad amare da piccola, attraverso il teatro, attraverso la canzoni suonate sul mandolino da mio padre per addormentarmi, attraverso il cinema e attraverso le mie estati partenopee. Probabilmente ero piccola e non avevo ancora modo di comprendere tutto ciò che c'era e c'è di marcio nella Napoli che ho sempre nel cuore.
Non mi soffermo neanche una riga per descrivervi le scene di inciviltà, noncuranza per la propria terra e volgarità che purtroppo ho visto durante le mie ultime permanenze a Napoli. Forse è sempre stata così. Oppure no, magari è diventata così in questi anni di povertà, di fame, di camorra, di morti innocenti, di violenza, di passività, di perdita di identità, di ragazzini che muoiono perché gli cade una tegola in testa sotto alla galleria di Umberto I. Non lo so e di certo non mi azzardo a terrorizzare in merito, vorrei solo brevemente accennare a come "noi" napoletani (mi ci metto in mezzo, perché alla fine sono un po' napoletana anche io) ci prendiamo in giro e ci ridicolizziamo:
http://www.youtube.com/watch?v=5FFSPb230d0
Agli occhi di chi viene da fuori, Napoli affascina e spaventa, ma soprattutto infastidisce. Chi viene da fuori non ha accesso ai tesori della vera Napoli, quella che vedi solo se cammini per le stradine della sanità con un napoletano che ti indica la pittoresca realtà di questa complessa città. Vista con gli occhi di chi viene da fuori, purtroppo è impossibile non fare caso alla presa in giro del gioco delle tre carte, agli scippatori, alla munnezza fetente che è in ogni angolo, ai truzzi scostumati con le t-shirt troppo strette e che sputano a terra. Tutto ciò lo vedi anche (o forse proprio) se pernotti all'hotel Excelsior che da su Castel dell'Ovo.
Rimane il fatto che Napoli è una favola. Napoli è una realtà a sé stante che puoi comprendere solo con anni di osservazione quasi antropologica, ed è molto facile, troppo facile, ridurla a ciò che puoi vedere facendo un salto in piazza Plebiscito per bere un caffè da Gambrinus. Napoli va vissuta, Napoli richiede che le dedichi del tempo di non-giudizio, Napoli richiede che guardi oltre il livello di fetenza e di camorra e di schifo. Napoli ti chiede di fermarti e dare un'occhiata alla gente che vive nei bassi, di notare la signora che ti vende le uova incartate nella carta di giornale uno per uno, di passeggiare per i ripidi vicoli del centro per scovare le librerie antiche e i bottegai appassionati che siedono davanti alla porta del loro negozio su sedie di plastica da bar anni '80.
Napoli ti chiede di non guardarla con arroganza. Di prenderti il tempo per imparare a guardare oltre il primo strato. Napoli ti chiede di interrogarti sulla tua inciviltà e sui tuoi lussi. Napoli è una città in cui puoi fare la spesa con due spiccioli in tasca, e insieme ai friarielli e i pomodori ti porti a casa anche il calore e la spontaneità di chi te li vende. Napoli dilata il tempo ed esige che metti da parte i tuo ritmi frenetici per poterla vedere davvero. Napoli, se riesci a guardarla con gli occhi di un bambino, è anche la patria dell'arte dell'arrangiarsi e del problem solving creativo. Napoli è un luogo in cui nonostante tutto la gente sogna e si azzarda. Un luogo in cui la gente è spinta ad essere creativa perché è l'unico modo in cui si può sopravvivere. Napoli è un luogo in cui puoi creare una compagnia di teatro o scrivere un'opera lirica e trovare un'orchestra e un direttore.
In psicologia il concetto di "zona di sviluppo prossimale" si riferisce all'apprendimento del bambino e di come avviene con l'aiuto degli altri. La ZSP è la distanza tra il livello di sviluppo attuale e il livello di sviluppo potenziale, che può essere raggiunto con l'aiuto di altre persone, adulti o pari con un livello di competenza maggiore. Cioè lo strapiombo da superare con un salto di quelli lunghi lunghi, magari con la rincorsa, per lasciarsi alle spalle la propria zona di comfort e poter crescere.
Dico così perché questa zona di sviluppo prossimale ce l'abbiamo sempre davanti, da 0 a 99 anni, e c'è sempre un modo di crescere ancora un po', c'è sempre una direzione in cui allungarsi, un nuovo orizzonte verso il quale sporgersi, ancora un po'. Io, per esempio, sono una di quelle che se la fa sotto quando si tratta di saltare in piscina da un trampolino di tre metri. Non lo farei mai e poi mai, ma neanche sotto tortura. Proprio no.
Eppure una volta mi sono fatta convincere a salire su uno di quei stramaledetti trampolini, "solo per vedere quanto è alto". E poi (come avrei dovuto immaginare e come penso il lettore avrà già capito da un pezzo), uno spintone a tradimento e via, ho fatto il volo nel vuoto. Ed è stato terrificante e mi è entrata l'acqua nel naso e ho aperto gli occhi sott'acqua e ho visto che ero quasi in fondo a quella stramaledetta piscina profondissima e per due secondi ho pensato che la mia giovane esistenza fosse terminata così. Poi sono riemersa, mi sono fatta due spritz campari con le patatine alla paprika, quelle puzzolenti che sanno di aglio, e la vita ha preso un colore diverso.
Intendiamoci, la paura dei trampolini non mi è mica passata e lassù io non ci metterò mai più piede, ma l'adrenalina post terrore ha un non so che di appassionante. Oppure sarà stata l'acqua gelida che mi ha raffreddato i neuroni, che ne so, fatto sta che mi sono sentita molto più forte e libera. A tensione scaricata tutto è diverso, le acque sono calme e le forze sono ricaricate.
Quello che conta è aver fatto il salto, da solo oppure con lo spintone a tradimento oppure con l'amico che ti prende la mano mentre il salto lo fai da comunque da solo. Perché una volta che ci hai provato tutto è diverso, non devi più passare tutto quel tempo a meditare sul terrore di fare il salto. Una volta che l'hai fatto, è fatta. E se va bene è una gran cosa. E se va male è ok comunque perché ormai è tutto alle tue spalle e sei pronto per nuove avventure.
Perché in effetti l'unico modo di farsi davvero male è rimanere fermi. Non muoversi, non crescere, non andare avanti con il proprio sviluppo, non allargare i proprio orizzonti, non mettere in discussione i propri punti di vista, le proprie convinzioni, le proprie abitudini. Perché sì, è vero, i dolori della crescita possono dare molto fastidio, e i nani di tre anni del "mio" asilo potrebbero raccontarvi una storia lunga sul tema. Ma i dolori della stasi? Quelli si che sono sono terrificanti. Lo sono perché sono gratuiti, perché non hanno alcun senso, non sono dolori che portano a una evoluzione, a un cambiamento, a un miglioramento. Sono dolori che danno fastidio e basta.
I bimbi del "mio" asilo? Hanno le ginocchia sfasciate, i gomiti doloranti, i graffi sulla fronte. A volte provano ad andare in bici senza rotelle sapendo di non esserne capaci e poi si schiantano contro un albero. Cadono, piangono, mi chiamano e io vado lì e li raccolgo da terra, li prendo in braccio e metto dei cerottini con le principesse sulle loro ferite. Un soffio sulla manina che fa male, un bacino sulla fronte e via, loro sono pronti per nuove avventure.
Proviamo a fare come loro, i veri saggi. Che avrebbero tanto da insegnarci, se solo fossimo pronti a cogliere ciò che ci vogliono dire.
C'è gente a cui le migliori idee vengono seduta sul cesso, e poi c'è gente, tipo me, che per pensare ha bisogno di nutrirsi del contesto, della sua energia, delle anime che ci vivono. Starmene seduta sul muretto sotto un portico di piazza santo Stefano per me è pura gioia, è aria fresca, è disintossicazione mentale.
Ultimamente ho sentito opinioni molto contrastanti in merito a questa città: c'è chi Bologna la ama come se fosse una mamma accogliente, e poi ci sono i disillusi che sentono la mancanza della bologna degli anni '80 e '90.
Io negli anni ottanta avevo ancora il ciuccio e Bologna ho iniziato a viverla dal 2005. Per me è stato amore a prima vista ed è sempre rimasto così. Io di questa città sono innamorata, con tutti i suoi limiti, e questi sono sedici motivi per cui tutti i giorni in cui mi sveglio in questa città sono un dono. Perché certa roba succedesoloabologna.
1.) Sedermi in piazza delle sette chiese con un taccuino e scrivere. Appunti, e-mail di lavoro, blog, pensieri, buoni propositi, liste della spesa. Tutto è più ricco se è stato concepito in questo luogo.
2.) L'Archiginnasio. Un luogo che mi ha salvato non solo la carriera universitaria, ma anche la salute psichica mentre ero in mezzo all'ennesimo trasloco. In giorni di pioggia e di schifo e di odio, l'archiginnasio è una tana sicura in cui rifugiarsi. Una sensazione come quella descritta dal mitico Lucio: "una famiglia vera e propria non ce l'ho, e la mia casa è piazza Grande".
3.) I professoroni universitari in giacca e cravatta De Paz con gli occhiali grossi e una pila di libri sottobraccio. Per me è adorazione allo stato puro.
4.) Il mercato della terra. Quello nel cortile del cinema lumiere ma anche e soprattuto quelli più popolari, nei centri sociali occupati come XM24 o il labas. Verdure direttamente dall'orto dei contadini, aperitivo con birra artigianale e panini vegetariani, tanta bella compagnia. E poi c'è Attilio, quello con la stampella che vende piazza grande, con cui facciamo a turno: una volta la birra la pago io, una volta la paga lui visto che siamo entrambi dei poveretti.
5.) Il cinema sotto le stelle in piazza grande. E poi il Cinema Ritrovato. E poi il Biografilm festival. E poi il Some Prefer Cake festival. E il Divergenti.
6.) L'estate a Bologna e i concerti: i giardini universitari che si trasformano in palchi sotto le stelle, il covo che si trasferisce al bolognetti, il museo di arte contemporanea che insieme al cassero ospita il cavaticcio. Le amache all'arena puccini con i graffiti in sottofondo.
7.) La comunità gay e lesbica. La libertà d'espressione, la diversità che tanto bene è integrata nel contesto urbano, le coppie di orsi gay che si tengono per mano sotto le due torri.
8.) I portici, soprattutto quando piove. Gli ombrelli sono roba per perdenti, a Bologna ci sono i portici. E poi, qualche volta, dopo c'è l'arcobaleno.
9.) I paradisi urbani nascosti dietro alti portoni di legno. Quando meno te lo aspetti, si apre un portone e ti capita di vedere il giardino di Eden di turno.
10.) La biblioteca salaborsa e l'urban center. E' così che mi immagino il concetto di cultura accessibile a tutti, dalla mamma che va nell'angolino per bimbi con il suo cucciolo allo studente che si ferma in aula studio fino al clochard che sfoglia manuali di arte moderna seduto nelle poltrone Frau tanto comode.
11.) I giardini margherita. Per le passeggiate primaverili tra gli innamorati, per un tuffo nella neve in pieno inverno, e, perché no, per una stupida battaglia sociale tra idioti targati #bolobene e #bolofeccia (ve la ricordate? ;-) )
12.) La vita pollegiata da quartiere. Il caffè al bar sotto casa con la barista che è la moglie del tuo vicino, le birrette con gli amici-clienti che abitano a cinque metri dal bar e non cambiano mai locale. Per sintetizzare dico solo bar Mike e Max, una leggenda.
13.) Le sdaure. E le sfogline. Quelle che saltano la fila alla coop e che ti chiedono una mano per scendere dall'autobus. Io una così la vorrei come nonna.
14.) Il cioccapiatti bolognese, quello che è capace di venderti il sapone di Aleppo in via delle pescherie vecchie a 19€ la saponetta, in tutto ciò facendoti pure credere di rivoluzionare la tua vita col suo prodotto.
15.) I T-Days. Che, diciamocelo, sono una gran rottura di Gabbasisi quando ti vuoi spostare con i mezzi pubblici, ma credo che sia il prezzo adeguato per lo spettacolo di vedere il centro storico senza macchine. Non c'è cosa più bella che camminare alle otto del mattino nel bel mezzo di via Rizzoli. E poi è sempre come una fiera degli artisti on the road e con un po' di fortuna si vedono degli spettacoli davvero geniali (facendo eccezione per le ronde di evangelizzazione che ultimamente si vedono in via indipendenza, s'intende).
16.) E poi, perché Bologna è casa. Perché è qui che, come tantissimi altri, sono andata a vivere da sola per fare l'università e perché è qui che ho costruito la mia primissima casa.
Che la nostra sia una cultura narcisistica ormai è un dato di fatto. Siamo servilmente devoti ai mezzi di comunicazione di massa che prosperano su immagini superficiali ignorando sostanza e profondità. Consideriamo il consumo di beni materiali come la strada verso la felicità. La nostra paura della vecchiaia e della morte alimenta gli affari dei chirurgi plastici.
E poi ci sono le selfie. Le selfie ormai non sono più la novità del giorno, e oltre ad avere avuto l'effetto collaterale di dover mettere sulla lista nera di Facebook, quella delle serie "non ricevere notifiche", circa un terzo dei miei contatti per la quantità di autoscatti nel cesso e simili, mi incuriosiscono molto come fenomeno sociale.
La selfie-mania ha raggiunto anche il papa. Facciamoci delle domande, amici.
Selfie a parte, una sana e buona dose di amor proprio è fondamentale per il nostro benessere psichico e tracciare una linea per separare il narcisismo sano da quello patologico è molto difficile. Individui narcisisti fortemente disturbati possono avere un successo straordinario in certe professioni e nella nostra società può rivelarsi come fortemente adattivo. Le forme patologiche di narcisismo si identificano attraverso l'esame della qualità delle relazioni interpersonali: una tragedia che affligge queste persone è la loro incapacità di amare. Qui potete andare a leggere i criteri diagnostici per il disturbo narcisistico di personalità.
Il narcisista viene definito per il suo senso di sé grandioso, con la tendenza di accostarsi agli altri come oggetti da usare o abbandonare a seconda dei propri bisogni e incurante dei sentimenti altrui. Insomma uno stronzo arrogante, ficcanaso e invadente che richiede sempre di essere al centro dell'attenzione. Quello che è poco tenuto in considerazione è che esiste anche una forma di narcisismo meno evidente! Si tratta del narcisista schivo, silenziosamente grandioso, che a causa della sua estrema sensibilità verso il rifiuto evita il più possibile di trovarsi al centro dell'attenzione. Si tratta di persone con un profondo senso di vergogna connesso al loro segreto desiderio di esibirsi con modalità grandiose. Questi soggetti osservano e ascoltano gli altri attentamente alla ricerca della pur minima reazione critica e tendono a sentirsi offesi di continuo.
Se il narcisista come descritto dai criteri diagnostici sopra citati è quello che tende ad esibirsi alla ricerca di complimenti e applausi, il narcisista celato mantiene segreti i suoi desideri di grandiosità evitando le situazioni in cui potrebbe essere vulnerabile, studiando attentamente gli altri per apparire "come si deve".
Quindi attenzione a giudicare: poiché tutti noi ci confrontiamo con aspetti narcisistici, dobbiamo sempre stare attenti al potenziale di ipocrisia implicito nell'etichettare gli altri come narcisisti!!! In ultima analisi, poi, a differenza del narcisista celato, il narcisista conclamato tende a dichiararsi felice e dotato di una buona autostima, adattandosi bene alla vita nella nostra società e realtà lavorativa ed economica odierna. Quindi pollici alti e tanti "like" a una sana dose di amor proprio, molto adattiva, soprattutto se significa essere capaci di chiedere di ciò di cui abbiamo bisogno. Se poi viene con una buona dose di autoironia e senso critico, è decisamente una chiave per il proprio benessere psichico!
Che, sinceramente, mi sono definitivamente stufata della vicina di casa ciellina, timida e schiva, che si atteggia a brava e benevola signora e poi t'incula appena le viene comodo. Oppure anche quella gente con cui non puoi litigare perchénon ti verrebbe mai e poi a mai a dire cosa c'è che li infastidisce. "Niente, tesoro, va tutto bene. Pace e bene. Amore universale per tutti". Salvo che appena possono, ti rinfacciano ogni singola mossa che hai fatto (manco avessero preso appunti) e quella volta che tirano fuori le palle e ti parlano, scoppiano e ti vomitano addosso tutto. Certo! Perché ai buoni e agli altruisti succede così: si tratta di un meccanismo di difesa tra quelli più maturi (cioè sani) che abbiamo a disposizione ed è la subordinazione dei propri bisogni a quelli altrui. Comportamenti altruistici possono essere usati in funzione di problemi narcisistici. Quindi, prendiamoci tutti un minuto di silenzio per riflettere sugli amici di padre Marella e su quelle signore che si piazzano davanti alla scalinata della Montagnola con i sorrisi inebetiti perché "noi siamo qui per te. Dio è con te, e io ti aiuterò a trovarlo". Forse, sotto sotto, c'è una buona dose di narcisismo celato?
Signore e signori, tornando ai selfie, vi introduco allo strumento essenziale, fresco fresco appena arrivato dall'ammmerica, per rimanere pari passo con le nuove tendenze. Ecco a voi SelfiePod, la bacchetta magica per scattare delle selfie perfette, ma non solo: si può anche usare per fare delle riprese sotto alle gonne a pois delle signorine senza farsi notare. ;-)
Quando facevo le elementari nella mia classe c'era una bimba che si chiamava Cornelia ed era "speciale". Così ci aveva detto la maestra, così diceva tutta la scuola.
Solo che io non capivo. Speciale come? Anche io ero speciale. Rompevo le palle in una maniera alquanto particolare e dicevo ai papà delle mie amichette che erano dei brutti maiali arrostiti. E poi tutta questa specialità io non ce la vedevo in quella bambina: aveva gli occhiali, era bionda e più alta di me. Camminava male, però camminava. Parlava male, ma la cosa non mi preoccupava perché anche io lo facevo visto che mi ero ritrovata in una scuola tedesca quando sapevo parlare solo l'italiano.
[caption id="attachment_1808" align="aligncenter" width="788"] special needs - immagine scaricata dal blog kellehampton.com[/caption]
Insomma tutta questa specialità invisibile dava a Cornelia dei diritti particolari. Aveva una maestra tutta per sé, aveva una classe tutta per sé e, questo era il fulcro della questione, quando si guardava un film in classe lei poteva starsene seduta a 50 centimetri dalla tivù e impedire a noi altri di vederci qualcosa. Dopo alcuni mesi di diffidenza e invidia perché la maestra le dava sempre ragione, ho capito che questa qui era meglio averla come amica che come nemica. E da qui è iniziato un periodo meraviglioso: se dichiaravi di volere passare del tempo in classe di Cornelia, potevi saltare le lezioni. Inizialmente si trattava solo di una scusa per evitare quelle noiosissime lezioni sulla preistoria della maestra Rottersteiner. Ma poi ho scoperto un mondo tutto nuovo, un mondo in cui si comunicava non per parole ma per disegni, un mondo in cui nelle aule scolastiche c'erano le altalene e in cui si andava a cavallo durante le ore di scuola.
Non sono mai riuscita ad essere indifferente alla presenza di quella bambina: sia nell'iniziale approccio in negativo che poi in positivo, c'è sempre stato qualcosa che catturasse la mia attenzione. Da "grandi" ci siamo perse di vista e io ho fatto di quell'esperienza il mio lavoro. Cornelia è stata la prima persona che mi ha fatto riflettere sulla diversità. Dopo di lei ci sono stati molti incontri, ma nessuno è stato più vissuto con quell'innocenza che ha segnato i miei primi anni di scuola elementare.
Da grande ho imparato a usare tanti filtri che mi sono stati insegnati. Per esempio in qualche modo, tra le righe, mi è stato insegnato a provare pietà per le persone che sono dei "poveretti". Questo insegnamento per me è stato una specie di ciste che poi ho imparato a togliermi di dosso. Quando ho incontrato Cornelia, con l'innocenza dei miei sei anni, non ho sprecato neanche un secondo a provare pietà. Mai e poi mai ho tentato di insegnarle o aiutarla: semplicemente facevo le mie cose e lei imparava guardandomi. Per me noi eravamo pari. Ognuna un po' freak, a modo suo.
Da grande mi hanno insegnato che non si dice la parola "matto". Mi hanno insegnato che non si indicano le persone con il dito. Mi hanno insegnato che non si fissano le persone, e che bisogna distogliere lo sguardo.
Scusatemi per il francesismo, ma mi tocca dirlo. BULLSHIT. Questi insegnamenti non solo sono inutili ma anche controproducenti. Certo che è sbagliato indicare quel trentenne alto solo quanto un bambino! Certo che non va fissato per ore! Ma queste buone maniere ci impediscono di guardare e di imparare, queste buone maniere ci rendono la vita comoda. E' molto, molto più facile distogliere lo sguardo quando vedi che si deve allungare tutto per riuscire a convalidare il biglietto del treno nella macchinetta. Lo metti nella categoria mentale "disabili" e guardi fuori dal finestrino.
E' tanto facile. Ma lasciatemelo dire: il problema è nostro, non suo. Quel ragazzo mica si allunga per la prima volta così in alto per convalidare quel biglietto. Non c'è niente di strano per lui. Siamo noi ad esserne irritati, ad essere disturbati dal nostro sonno vigile, siamo noi ad essere turbati nei nostri automatismi quotidiani!
Perché quando abbiamo il coraggio di guardare per tre secondi in più non abbiamo altra scelta che svegliarci. Non abbiamo altra scelta che osservare le enormi difficoltà e le enormi competenze che quel ragazzo ha sviluppato per compensarle. Non abbiamo altra scelta che vedere quanto è differente la sua vita dalla nostra ma quanto, allo stesso momento, è intrisa di quotidianità, di abitudini, di scorciatoie e anche di automatismi. Se riusciamo a superare la paura della diversità e incontrare senza filtri la persona che ci troviamo davanti, con i suoi modi goffi di camminare, con quelle labbra un po' secche, con quella parlata un po' difficile da comprendere... possiamo andare oltre e vedere chi è quella persona veramente.
Che magari poi scopri che quel trentenne è un informatico plurilaureato, parla quattro lingue, vive con sua moglie in un appartamento con una cucina fatta su misura per lui e sa fare un cous cous che spacca.
Cha magari così ci godiamo meglio questi quattro meravigliosi minuti di happiness pieni di persone speciali.
https://www.youtube.com/watch?v=aCJQAm_uKyg
Non sto dicendo che dobbiamo diventare delle madri teresa in miniatura. Dico solo di non aver paura di guardare. Di non aver paura di vedere qualcosa che ci sconvolge.
Perché se ci sconvolge ci sconvolgerà solo in positivo, perché ci farà crescere, ci poterà a farci delle domande, ci poterà a guardarci dentro.
Grazie a Marina per i suoi racconti di vita reale.
Avere un figlio autistico vuol dire accettare che il presente e il futuro sono ben diversi da quello che ti immaginavi quando in bagno avevi pisciato sul test di gravidanza ed erano venute fuori due lineette blu. Avere un figlio autistico è come parlare un’altra lingua, vivere su un altro pianeta, respirare un’aria diversa. Eppure, è il viaggio più bello che si possa fare, perché ti mette di fronte ai limiti che hai quando non sei che un essere umano inserito, e ti insegna un modo diverso di stare al mondo.
Mentre stavo scrivendo la tesi, quando credevo ancora che il mio relatore l'avrebbe letta perdavvero, mi è capitato tra le mani un libricino sottile di un certo Watzlawick che si intitolava "Istruzioni per rendersi infelici". Mi sono seduta sulla poltroncina Frau più vicina, quelle lì nere dove si siedono spesso i clochard puzzolenti, proprio vicino alle toilette e in mezzo a un gran traffico di gente di corsa, e non mi sono alzata più per tre ore buone.
Questo qui è un genio, mi sono detta. E in un pomeriggio mi sono innamorata di lui e dei suoi salti mortali logici. E mi sono piazzata lì per una settimana e ho letto tutto quello che ha scritto. E ho letto qualcosa sul cambiamento, o meglio sulla distinzioni tra vari tipi di cambiamento: cioè una persona può cambiare, milioni di volte, all'interno di un dato sistema senza cambiare nulla. Perché finché si muove all'interno di questo sistema parla la lingua di questo sistema, usa gli schemi di questo sistema, ragione secondo la logica di questo sistema. Il cambiamento vero, quello che in questo caso l'autore chiama "il cambiamento di tipo 2" è quello che comporta l'uscita dal sistema di riferimento e la creazione di un sistema di significati nuovo. Perché il problema non è il cambiamento. Il problema è la soluzione. Quella sbagliata, quella che ragiona secondo il regime del sistema da cui è nato il problema.
Mi spiego meglio. Guardate l'immagine qui sotto: il compito è di tracciare fino a quattro segmenti di linea, in modo da toccare tutti i punti. C’è una sola regola del tutto fondamentale: nel tracciare le linee non si deve mai staccare la penna dal foglio.
[caption id="" align="aligncenter" width="280"] problema dei 9 punti Watzlawick[/caption]
Ci siete riusciti? Io no. Eppure non è difficile, bisogna solo uscire dai bordi. Nessuno ha detto che non si può uscire dai bordi, ma ci viene spontaneo non farlo. Questo è un cambiamento di tipo 2, questo significa uscire dal sistema. Perché ci puoi anche provare un trilione di volte a unire i puntini senza uscire dai bordi, ma non avrai successo. Perché qui il problema è la soluzione. You have to think outside the box, baby.
Ultimamente ci ho pensato spesso a questa teoria del cambiamento. Questo cambiamento che avviene in maniera drastica, acuta, forte e mai lineare. Non conosco cambiamento vero che sia avvenuto in maniera graduale. Perché non è così che si esce da un sistema di pensiero, non nella mia realtà, non nel mio mondo. E quindi, per me, un cambiamento avviene quando ci si ritrova davanti ad uno specchio, quando ci si riesce a vedere da una prospettiva nuova, quando ci si riesce a vedere attraverso nuovi occhi. Tutto d'un tratto vedi le stesse cose che c'erano già prima, ma in un'ottica diversa: le cose sono le stesse ma adesso hanno dei colori diversi, un odore diverso, un significato diverso. La stessa cosa, percepita in maniera diversa, non è più la stessa cosa.
E quando cambia la prospettiva di ha una "esperienza AHA" come diciamo noi tedeschi. Che per farla breve significa insight. E quando ti vedi allo specchio, esattamente nel momento in cui ti vedi, è già partito il cambiamento.
E questo cambiamento può essere spaventoso, elettrizzante, rinvigorente, paralizzante, energizzante... insomma una bella centrifuga. Nel momento in cui ti vedi in quello specchio, nel momento in cui ti riconosci, è tutto fatto. Da qui non c'è ritorno, non si può tornare a vedere il mondo così com'era prima. E tutto ciò è meravigliosamente terrificante. Tutto ciò significa fare un salto di qualità, significa partire con una marcia nuova, significa che adesso il mondo non è fatto solo così come lo vedevi prima, ma anche come lo vedi adesso.
Guardarsi in uno specchio per me significa vedere una nuova verità. Quella di adesso, quella del qui ed ora, quella che forse tra un secondo, forse tra un mese, forse fra un anno svanirà. Oppure resterà così.
Guardarsi in uno specchio fa una gran paura. Perché significa interrogarsi, significa mettersi in discussione, significa far tremare la terra sotto i propri piedi, significa prendere le proprie fondamenta e metterle sottosopra.
Per guardarsi in uno specchio ci vogliono delle gran palle. Il problema non è il problema, il problema è la soluzione.
"Shake It Out"
Regrets collect like old friends Here to relive your darkest moments I can see no way, I can see no way And all of the ghouls come out to playAnd every demon wants his pound of flesh But I like to keep some things to myself I like to keep my issues drawn It's always darkest before the dawnAnd I've been a fool and I've been blind I can never leave the past behind I can see no way, I can see no way I'm always dragging that horse aroundOur love is pastured, such a mournful sound Tonight I'm gonna bury that horse in the ground So I like to keep my issues drawn But it's always darkest before the dawnShake it out, shake it out, shake it out, shake it out, ooh whoa Shake it out, shake it out, shake it out, shake it out, ooh whoa And it's hard to dance with a devil on your back So shake him off, oh whoa
And I am done with my graceless heart So tonight I'm gonna cut it out and then restart 'Cause I like to keep my issues drawn It's always darkest before the dawn
Shake it out, shake it out, shake it out, shake it out, ooh whoa Shake it out, shake it out, shake it out, shake it out, ooh whoa And it's hard to dance with a devil on your back So shake him off, oh whoa
And it's hard to dance with a devil on your back And given half the chance would I take any of it back It's a fine romance but it's left me so undone It's always darkest before the dawn
Oh whoa, oh whoa...
And I'm damned if I do and I'm damned if I don't So here's to drinks in the dark at the end of my road And I'm ready to suffer and I'm ready to hope It's a shot in the dark aimed right at my throat 'Cause looking for heaven, found the devil in me Looking for heaven, found the devil in me Well what the hell I'm gonna let it happen to me, yeah
Eppure guardarsi allo specchio può solo portare verso un'evoluzione. E può solo significare crescita.
E quindi perché esserne spaventati? Perché temere le conseguenze una ricerca più approfondita all'interno delle proprie convinzioni? Perché spaventarsi davanti a una nuova verità? Perché bloccarsi davanti a una nuova occasione di crescita? Perché sprecare forze nel tentativo di frenare qualcosa che è già partito? Perché avere paura di conoscersi più profondamente, perché avere paura di crescere insieme, perché temere l'evoluzione di ciò che hai creato o amato?
Quindi, zaino in spalla e via. Oppure rossetto rosso e via, come preferite <3
Buon 2014, buona evoluzione
(Ph. by my talented and fearless friend Samina Seyed)