Wednesday, 26 March 2014

"matto" non si dice.

Quando facevo le elementari nella mia classe c'era una bimba che si chiamava Cornelia ed era "speciale". Così ci aveva detto la maestra, così diceva tutta la scuola.

Solo che io non capivo. Speciale come? Anche io ero speciale. Rompevo le palle in una maniera alquanto particolare e dicevo ai papà delle mie amichette che erano dei brutti maiali arrostiti. E poi tutta questa specialità io non ce la vedevo in quella bambina: aveva gli occhiali, era bionda e più alta di me. Camminava male, però camminava. Parlava male, ma la cosa non mi preoccupava perché anche io lo facevo visto che mi ero ritrovata in una scuola tedesca quando sapevo parlare solo l'italiano.

[caption id="attachment_1808" align="aligncenter" width="788"]immagine scaricata dal blog kellehampton.com special needs - immagine scaricata dal blog kellehampton.com[/caption]

Insomma tutta questa specialità invisibile dava a Cornelia dei diritti particolari. Aveva una maestra tutta per sé, aveva una classe tutta per sé e, questo era il fulcro della questione, quando si guardava un film in classe lei poteva starsene seduta a 50 centimetri dalla tivù e impedire a noi altri di vederci qualcosa. Dopo alcuni mesi di diffidenza e invidia perché la maestra le dava sempre ragione, ho capito che questa qui era meglio averla come amica che come nemica. E da qui è iniziato un periodo meraviglioso: se dichiaravi di volere passare del tempo in classe di Cornelia, potevi saltare le lezioni. Inizialmente si trattava solo di una scusa per evitare quelle noiosissime lezioni sulla preistoria della maestra Rottersteiner. Ma poi ho scoperto un mondo tutto nuovo, un mondo in cui si comunicava non per parole ma per disegni, un mondo in cui nelle aule scolastiche c'erano le altalene e in cui si andava a cavallo durante le ore di scuola.

Non sono mai riuscita ad essere indifferente alla presenza di quella bambina: sia nell'iniziale approccio in negativo che poi in positivo, c'è sempre stato qualcosa che catturasse la mia attenzione. Da "grandi" ci siamo perse di vista e io ho fatto di quell'esperienza il mio lavoro. Cornelia è stata la prima persona che mi ha fatto riflettere sulla diversità. Dopo di lei ci sono stati molti incontri, ma nessuno è stato più vissuto con quell'innocenza che ha segnato i miei primi anni di scuola elementare.

Da grande ho imparato a usare tanti filtri che mi sono stati insegnati. Per esempio in qualche modo, tra le righe, mi è stato insegnato a provare pietà per le persone che sono dei "poveretti".  Questo insegnamento per me è stato una specie di ciste che poi ho imparato a togliermi di dosso. Quando ho incontrato Cornelia, con l'innocenza dei miei sei anni, non ho sprecato neanche un secondo a provare pietà. Mai e poi mai ho tentato di insegnarle o aiutarla: semplicemente facevo le mie cose e lei imparava guardandomi. Per me noi eravamo pari. Ognuna un po' freak, a modo suo.

Da grande mi hanno insegnato che non si dice la parola "matto". Mi hanno insegnato che non si indicano le persone con il dito. Mi hanno insegnato che non si fissano le persone, e che bisogna distogliere lo sguardo.

Scusatemi per il francesismo, ma mi tocca dirlo. BULLSHIT. Questi insegnamenti non solo sono inutili ma anche controproducenti. Certo che è sbagliato indicare quel trentenne alto solo quanto un bambino! Certo che non va fissato per ore! Ma queste buone maniere ci impediscono di guardare e di imparare, queste buone maniere ci rendono la vita comoda. E' molto, molto più facile distogliere lo sguardo quando vedi che si deve allungare tutto per riuscire a convalidare il biglietto del treno nella macchinetta. Lo metti nella categoria mentale "disabili" e guardi fuori dal finestrino.

E' tanto facile. Ma lasciatemelo dire: il problema è nostro, non suo. Quel ragazzo mica si allunga per la prima volta così in alto per convalidare quel biglietto. Non c'è niente di strano per lui. Siamo noi ad esserne irritati, ad essere disturbati dal nostro sonno vigile, siamo noi ad essere turbati nei nostri automatismi quotidiani!

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Perché quando abbiamo il coraggio di guardare per tre secondi in più non abbiamo altra scelta che svegliarci. Non abbiamo altra scelta che osservare le enormi difficoltà e le enormi competenze che quel ragazzo ha sviluppato per compensarle. Non abbiamo altra scelta che vedere quanto è differente la sua vita dalla nostra ma quanto, allo stesso momento, è intrisa di quotidianità, di abitudini, di scorciatoie e anche di automatismi. Se riusciamo a superare la paura della diversità e incontrare senza filtri la persona che ci troviamo davanti, con i suoi modi goffi di camminare, con quelle labbra un po' secche, con quella parlata un po' difficile da comprendere... possiamo andare oltre e vedere chi è quella persona veramente.

Che magari poi scopri che quel trentenne è un informatico plurilaureato, parla quattro lingue, vive con sua moglie in un appartamento con una cucina fatta su misura per lui e sa fare un cous cous che spacca.

Cha magari così ci godiamo meglio questi quattro meravigliosi minuti di happiness pieni di persone speciali.

https://www.youtube.com/watch?v=aCJQAm_uKyg

Non sto dicendo che dobbiamo diventare delle madri teresa in miniatura. Dico solo di non aver paura di guardare. Di non aver paura di vedere qualcosa che ci sconvolge.

Perché se ci sconvolge ci sconvolgerà solo in positivo, perché ci farà crescere, ci poterà a farci delle domande, ci poterà a guardarci dentro.

 

1 comment:

  1. Bellissima pagina su un fatto verissimo. Io penso di aver iniziato a odiare i borghesi piccoli piccoli che guardano i disabili con paura-sgomento-indifferenza-apatia...ecc..ecc, quando un poliziotto che camminava assieme a me è stato avvicinato da un ragazzo spastico che voleva semplicemente un saluto....lui è letteralmente scappato. Allora, cari signori della buona società: sono io che non ho capito un c... di niente o siete voi, che sarebbe meglio andaste a vivere su un pianetino molto, molto lontano da qui..?

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