Wednesday, 17 September 2014

da vecchia sarò illuminata


Da vecchia sarò saggia e risoluta. Sarò una di quelle signore che a settembre fanno le conserve di pomodori e le marmellate ai fichi. Sarò capace di comprare una scatolina di cioccolatini fatti a mano e mangiarne solo uno al giorno. Sarò una di quelle che il sabato lo dedicano alle pulizie di casa e la domenica al riposo e agli ospiti. Sarò talmente equilibrata psicologicamente e in pace con il mio aspetto che non sentirò il bisogno di tingermi i capelli. Ascolterò Maria Callas a tutto volume mentre impasterò i canederli. Sarò illuminata e risoluta tanto che le persone verranno da ogni dove a raccontarmi la loro storia per chiedere la mia opinione. Sarò ricca sfondata, con l'autista personale e la personal shopper. Sarò bella come il sole, tipo Meryl Streep. Sarò come una di quelle nonnine dei cataloghi per le assicurazioni sulla vita. 



Va bene, forse non sarò proprio così. Qualcosa mi dice che non sarò mai organizzata, che non sarò mai capace di fare le conserve di pummarola e che il sabato certamente non mi metterò in ginocchio a pulire il parquet. Non sarò certamente la nonnina perfetta e non sarò mai capace di lavorare a maglia e giocare a carte, che lavorare a maglia mi fa venire un nervoso di quelli che per farmelo passare ci vogliono tre spritz campari e una cena di pesce, e giocare a carte mi pare la roba più inutile sulla faccia della terra (ad eccezione del poker, ovviusly, quella è una dimensione parallela).  Però ci sono alcune cose che spero di imparare a fare da "grande" e da "vecchia". 

Innanzitutto, spero che sarò molto più stronza di adesso. Spero che avrò imparato a "mangiare la faccia", come si suol dire con eleganza, a chi mi mette i bastoni tra le ruote, terrorizzando la vittima fino al midollo e inducendola ad emigrare verso un altro continente. Spero che avrò imparato ad essere più egocentrica e spero che avrò imparato a dichiarare i miei bisogni con più fermezza e convinzione. 
Poi spero di aver imparato ad amare. Spero che avrò imparato a vivere le mie faccende amorose con serenità e senza salti mortali logici. Spero che avrò imparato ad amare a prescindere dall'incertezza e dalla paura, spero che avrò imparato ad amare senza aspettative. Spero che avrò imparato a dare importanza alla gioia nell'amore e spero che avrò imparato a costruire senza distruggere per fare tutto dall'inizio. Spero che avrò imparato a riconoscere la differenza tra l'innamoramento di una storia amorosa e l'innamoramento di una persona. Spero che avrò imparato a leggermi dentro e spero che avrò imparato a capire che cosa è bene per me in amore. 


Spero che avrò imparato ad usare una forma di assertività che non ferisce e spero di aver imparato a piangere molto di più. Spero di avere imparato a non riempire i momenti vuoti e spero di aver imparato ad accettare il silenzio. Spero che avrò imparato a proteggere l'integrità della mia personalità e quella dei miei cari. Spero di aver imparato a comunicare il mio onesto e autentico tentativo di comprendere l'altro. Spero di aver viaggiato tantissimo, spero di aver visto il mondo e spero di aver speso ogni singolo centesimo dei miei averi per viaggiare, incontrare il diverso, vedere nuovi mondi e allagare il mio orizzonte. Spero che sarò ancora curiosa come lo sono ora, spero che avrò ancora tutta questa voglia di andare in biblioteca e riempire lo zaino di saggi, manoscritti e albi illustrati. Spero che avrò ancora voglia di osservare il mondo e le persone e i contesti come lo faccio adesso, un po' da fuori e un po' da dentro. Spero che mi rimarrà un pizzico di ingenuità, solo un pizzico, per mantenere intatto lo stupore che oggi riempie le mie giornate. Spero di mantenere aperto il mio cuore, spero che nonostante tutti gli stronzi che mi capiteranno avrò ancora fiducia nelle amicizie, nelle collaborazioni e nei racconti di altre persone. Spero di mantenere flessibile la mia mente, spero di riuscire ad affrontare i cambiamenti con consapevolezza e apertura alla novità. Spero che avrò ancora voglia di crescere, di imparare e di conoscere. 

Queste parole sono dedicate a Flavia, la mia "vecchia" preferita. Ma non solo la mia, visti gli applausi che si è beccata quando ha parlato in piazza grande a giugno. <3 

http://it.tinypic.com/view.php?pic=11l4cie&s=4#.VBmcalaetrM


Monday, 15 September 2014

plasticità cognitiva

Nella nostra testa, ogni volta che facciamo un'esperienza, quindi in pratica durante ogni singolo istante della nostra esistenza, si modifica la nostra architettura neurale. In base a ciò che percepiamo, alle conclusioni che elaboriamo consciamente o senza esserne consapevoli, la disposizione dei neuroni nel nostro cervello si adatta alle nuove circostanze. Andiamo a fortificare connessioni e vie di comunicazione che si confermano nella loro correttezza e utilità e tagliamo sinapsi che sono inutili. Man mano che diventiamo più esperti nell'esercizio che per semplificarle le cose ora chiamo "vivere", riduciamo sempre di più la rete di connessioni neurali in base alla nostre preferenze, a ciò che si è rivelato utile, alle evidenze e alle credenze. Da piccoli nasciamo con una quantità di sinapsi neanche paragonabile a quella di un adulto, perché da piccoli abbiamo milioni di possibilità di "costruire" la nostra rete di connessioni, mentre da grandi abbiamo semplificato le cose creando grandi autostrade del pensiero, di quelle grosse a quattro-cinque corsie come ce l'hanno in ammmerica, perché ormai abbiamo creato vie per semplificare l'analisi del mondo. Siamo minimal, insomma. 


Solo che questa storia di essere minimal non è poi tanto bella perché a forza di creare preferenze e abitudini, andiamo a costruire rigidità del pensiero e fissità funzionali.  Con ogni alternativa di pensiero o di comportamento che decidiamo di abbandonare, prendiamo letteralmente una sinapsi e la buttiamo nella raccolta differenziata (non quella della tares, amici. Quella biologica per davvero, dico). Quindi a forza di buttare via neuroni e sinapsi che non ci servono, ci riduciamo a qualche povera "autostrada" neurale e finisce che da vecchi diventiamo burberi e rigidoni. 

In effetti questa storia è abbastanza triste. Più la nostra vita diventa ricca di esperienze e più diventiamo anziani, saggi e risoluti, più si impoverisce la nostra materia grigia. I neuroni ci fanno ciao ciao con la manina e se ne vanno per la loro strada. Quella che nei piccoli è plasticità cerebrale, nei grandi rischia di diventare rigidità funzionale. Facciamo le robe sempre allo stesso modo perché ci sentiamo sicuri nel farle così. Abbiamo bisogno di farlo, perché la nostra identità si costruisce sulle certezze rigide come i mattoncini della lego, impilate una per una nella nostra testa e considerate come assolute. Cioè il concetto di certezza equivale a "la verità" e "la realtà". Robe che ovviamente non esistono, ma questa è una storia lunga. 

Certezze, insomma. Certezze che ovviamente sono artefatti della nostra mente. Certezze che per fortuna non sono così assolute come crediamo e vengono messe in discussione ogni volta che ci confrontiamo con le idee di altre persone. Succede che piano piano, alcuni di più e altri di meno, siamo capaci di aprirci alla prospettiva altrui e guardare il mondo con altri occhi. Se abbiamo una forma mentis flessibile siamo in grado di metterci nei panni di una persona e percepire il mondo con le sue chiavi di lettura. E magari, per un brevissimo istante, diventiamo simili all'amico fidato...



Questa forma di apertura mentale non richiede di rinunciare alla propria identità, anzi... è proprio nel momento in cui mi apro al tuo modo di vedere il mondo e provo a guardarlo con i tuoi occhi, che riesco a definire con più chiarezza chi sono io, quali sono i miei limiti, quali sono i miei punti di forza. Crescere significa anche fondersi con l'altro, nel senso di fusione delle idee e delle prospettive e dei valori. Non in via definitiva, ovviusly. Però io intanto mi diverto a guardare il mondo con gli occhi dei miei amici, mi diverto a passare le serate con il mio amico Riki che mi da il via libera a comportarmi come una camionista rozza, a fare la pettegola con le amiche osservando come sono vestite le signore della bolognabene ma anche a seguire in silenzio i rituali dei miei nonni scanditi dalla tradizione. Tre situazioni in cui, vista da fuori, potrei apparire come una persona completamente diversa. Eppure no, non è così: come tutti, sono molteplice e non univoca. Mi piace sperimentarmi, giocare, essere permeabile a nuove prospettive, senza perdere il mio chiaro filo conduttore. Non mi perdo per strada, mi apro a mondi nuovi. (E cerco di non buttare via inutilmente sinapsi, che magari un giorno mi potrebbero tornare utili)

Sunday, 14 September 2014

Violenza

Per essere violenti ci sono tanti modi, io per esempio da piccola prendevo a calci e pugni i maschi, oppure li rincorrevo e tiravo giù le loro braghe per vedere cosa ci fosse sotto ("sotto" c'erano le mutande degli antenati di Peppa Pig, per la cronaca). La mia carriera di bambina violenta è iniziata a circa diciotto mesi emmezzo, quando ho dato il mio primo pizzicotto a un bambino biondo di sei anni che, francamente, mi stava fra i piedi e mi impicciava nei giochi. Quella è la mia faccia post pizzicotto, catturata da mio padre che probabilmente al tempo si sarà fatto il segno della croce e avrà pensato di aprire quella bottiglia di chianti che aveva tenuto da parte per le occasioni speciali.


Violenza, insomma. Alla fine poi me la sono cavata, la mia fase misantropa è durata poco e sono passata a una forma di aggressività più elaborata e celata, se non contiamo quelle due volte in cui ho mandato letteralmente "affanculo" il mio oculista e ho dato del "brutto maiale arrostito" al papà di una mia amichetta.
In casa mia non si è mai alzata una mano contro donne e bambini e non ho mai preso una sberla in vita mia (forse mi avrebbe fatto bene). Da grande ho dato qualche sberla, due tre volte, per riportare alla ragione dei sensi chi aveva perso la lucidità durante una litigata o per ragioni simili. Tutto qui, niente di che, ma l'assenza di aggressività fisica non significa che io non abbia avuto da combattere contro soffocanti e opprimenti violenze. Io ce l'ho a morte con la gente che non ha il coraggio di avvicinarsi a te, guardarti negli occhi e dirti "mi fai schifo, vediamoci fuori che ti voglio tirare un cazzotto". Io ce l'ho con la gente che si nasconde dietro la tipica frase che "le donne non si toccano neanche con un fiore" e poi dopo ti aggredisce e ti violenta, non con le mani, ma con gli altri dieci milioni di modi che ci sono per fare del male a una persona.
Qui sotto, due esemplari di Uomini che di violenza ne sanno qualcosa.
fight club- chemical burn
Non ce l'ho con gli uomini, anzi. Credo che le donne siano in grado di essere di gran lunga più cattive, sottili, furbe, spietate, ingannevoli e false di quanto un uomo sia capace di percepire.
Ci sono così tante forme di violenza che non so neanche come sintetizzare la mia prospettiva. Nel brodo ci metterei di sicuro il classico professore che seduce la studentessa giovanissima, la gente che ai tuoi occhi ti riempie di baci e abbracci e alle tue spalle ti augura peste e corna e il narcisista che ti sfrutta per poi liberarsi di te appena sei inutile ai suoi fini. Poi mi da orrendamente fastidio la violazione della sfera privata di una persona, come andare a raccontare in giro ciò che ti ha rivelato in confidenza oppure parlare di circostanze della sua vita pubblicamente e sul web, senza avvertirla ne chiedere il permesso di farlo. Mi da molto più fastidio la violenza celata di quella fatta alla luce del sole perché la violenza celata è una roba da pusillanime e codardo, una roba che puzza di marcio, una roba spregevole. Una roba come i giochini psicologici, quelli in cui ti inganno, ti faccio sentire in colpa, ti induco a fare una decisione o compiere un'azione che va contro i tuoi ideali. I giochini in cui ti dimostro che ho il potere su di te e ti costringo a seguire le mie regole sono qualcosa di penetrante e sottile. Elaborati con cura, oppure parte integrante del modus operandi di una persona, sono disarmanti come una malattia che non si cura perché sono accompagnati dalla paura.
Insomma oggi mi va di fare un inno alla violenza vera, quella che allo stato puro ha un che di poetico, quella che una litigata la risolvi con due urli e, se proprio scappa, uno schiaffo e amici come prima. Che, per quanto posso, preferisco la compagnia del cane che abbaia ma non morde, perché la gente zitta zitta e buona buona, quella che ti osserva da lontano senza annunciare la sua presenza, quella che ti tiene monitorata e che vuole vedere come fai le cose, mi sa di un pericoloso che è meglio farci un bel giro lungo attorno. Perché la violenza sottile, quella che è crudele perdavvero, è qualcosa che ti richiede anni per disintossicarti e che cambia brutalmente il modo in cui guardi il mondo e le persone. La violenza sottile è qualcosa di cui ti accorgi pezzo per pezzo, e a distanza di tempo si aggiungono tasselli alla tua ricostruzione dei fatti, tasselli di cui ti accorgi solo una volta che il tornado è passato e hai la calma e il silenzio necessari per guardare in profondità e riflettere sui dettagli.
- all your mental armor drags me down
nothing hurts like your mouth
your loaded smiles
pretty just desserts
wish it all for you -
PS. Non vorrei in nessun modo sminuire il danno provocato a vittime di violenza fisica, lungi da me. Qui rifletto solo sulle altre forme di violenza.

Sunday, 7 September 2014

i fotografi sul red carpet

Purtroppo o per fortuna ho un modo di guardare il mondo che mi rende impossibile concentrare l'attenzione su ciò che in generale cattura l'occhio delle persone. Per esempio, quando tutti guardano Alba Rohrwacher alla cerimonia di chiusura della 71. Mostra d'arte cinematografica di Venezia, le mie capacità attentive si fossilizzano sulla mimica dei fotografi in sottofondo. Potrei passare giornate intere girando per gli spazi del film festival e non fare altro che osservare la gente e prendere appunti sul mio moleskine giallo, dato che di scene pittoresche ne ho viste abbastanza da nutrire il mio immaginario fino a Natale.



Insomma, mentre Alba si impegna per fare quel dolce sorrisino da bambi indifeso, io mi fermo a guardare le facce di quei signori vestiti tutti di nero (è un dress code, mi è stato riferito) e ai miei occhi si apre un mondo: i fotografi. Che esemplari spettacolari da osservare in azione! E che intrigante spettacolo sono in grado di fornire, forse inconsapevoli di essere osservati mentre osservano, oppure ben coscienti della cosa e intenti a imitare l'espressività delle star sul red carpet che, appunto, stanno fotografando. Ci sono quelli concentrati concentrati, quelli che girano l'obiettivo dall'altra e si rifiutano di scattare per chissà quale motivo, quelli che ti guardano dall'alto in basso, quelli tanto spiazzati dalla bellezza di qualcosa che si sono dimenticati di scattare, quelli che si nascondono dietro obiettivi con un diametro pari alla loro circonferenza cranica, quelli che stanno al telefono con i capi che probabilmente vogliono avere le loro foto in quel preciso istante, quelli che sudano come se fossero a una lezione di bikram yoga sotto alle loro giacche doppiopetto, quelli che per vederci bene stringono gli occhi e pare che abbiano la puzza sotto al naso e quelli con la faccia tesa che pare abbiano visto il nemico (oppure un preda, no si può sapere con certezza).

                       (in foto, la mia amica ed eccellente fotografa Samina Seyed al lavoro sul red carpet veneziano) 

Tutte queste affermazioni rimarranno proiezioni del mio mondo interno, ma c'è qualcosa che durante la mia brevissima permanenza al Lido di Venezia mi pare di poter dire con certezza: tra i fotografi vince chi urla di più. Esili fotografe bionde con vestitini di seta e delicate scarpe con il tacco a spillo si trasformano nel giro di una frazione di secondo, modalità lupo mannaro per intenderci, e cacciando urli alla portata di un gondoliere a fine giornata e dopo quattro spritz, per far girare la testa alla star di turno. Poi ci sono quelli che la sera stanno sui libri, studiano tutti i nomi di chi mette piede sul tappeto rosso e hanno una memoria di ferro per cui riescono a chiamare per nome tutte le loro prede. E poi ci sono anche quelli che la sera fanno altro, magari passano le notti su photoshop a mettere a posto il girovita di Alba Rohrwacher, che pesa quarantaquattro chili, oppure a sistemare la pelle dell'adorabile bimbetto di The President di Makhmalbaf, o qualsiasi altra cosa, fatto sta che le star le chiamano dicendo "mister, here, on the left!"  e "miss, to your right, please!"



I fotografi sono vestiti tutti quasi uguali e una delle poche cose che li differenzia è lunghezza e diametro dell'obiettivo. Cosa che deve essere un tema molto discusso perché più di una volta ho notato signori in giacca e papillon avvicinare le loro attrezzature per un sano e vivace confronto di peso, portata e potenza dei macchinari. Poi, ho notato un dettaglio teatrale: un gruppo di fotografi come quello di ieri sera sul red carpet di Venezia è capace di entrare in simbiosi assoluta, al punto mi muoversi in maniera sincronizzata, attrezzatura fotografica inclusa. La star accenna un passo a destra e loro, in perfetta armonia, tipo una compagnia di danza contemporanea, assumono la stessa postura, la stessa espressione ed eseguono gli stessi movimenti, in perfetta sincronia.

Ci si potrebbe scrivere una tesi, sulle dinamiche di gruppo dei fotografi. Io sarei capace di passarci i tre anni di dottorato a studiarmeli, lo ammetto. Sono qualcosa di troppo affascinante: in certi momenti sono aggressivi come leoni mentre cercano di catturare le loro prede e in altri momenti sono docili e pieni di stupore per ciò che hanno davanti agli occhi. Hanno una forma mentis che inevitabilmente è condizionata dalla loro professione, sono capaci di vedere dettagli di cui noi umani neanche conosciamo l'esistenza e hanno delle capacità percettive potenziate dal loro occhio fotografico. A volte sono più seri e concentrati delle loro ombre, mentre altre volte sono gioiosi come dei bambini, per esempio quando "giocano" al red carpet dopo che se ne sono andate le star e si fotografano a vicenda su questo leggendario tappeto rosso. Sembrano tutti molto appassionati del loro lavoro e anche un bel po' drogati dall'adrenalina da film festival.



                   

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