Quando ero una piccola peste di quattro anni passava spesso da casa mia un professore amico di mio padre. Era un tipo strano, molto cupo, che sembrava vecchio già allora anche se a quei tempi avrà avuto circa una trentina d'anni. Sottobraccio portava sempre mezza dozzina di libri e parlava in maniera incomprensibile, tipo che per rispondere alle mie domande da nana faceva tutto un suo incipit spiegandomi la provenienza del termine dal greco antico e citando i grandi filosofi. Onde evitarmi ripetuti stati confusionali, mia madre mi mandava sempre a giocare con le bambole o fare altri disastri, tipo colorare i muri della casa in affitto.
Quel professore ha un numero di lauree che non si conta sulle dita di una mano e una preparazione accademica che supera wikipedia. Ero convinta che invece di mangiare cibo lui si nutrisse di pagine di libri. Immaginavo che a cena si sarebbe mangiato il capitolo IV dell'introduzione alla metafisica di Heidegger e poi come dessert l'incipit del codice dell'anima di Hillman. Eppure, quando poi sono cresciuta e diventata una giovane liceale, un giorno lui mi ha consigliato di non leggere troppo. "Fa male all'anima leggere troppo", dice lui. E, infatti, lui non mi è mai sembrata una persona serena.
Da grande poi, frequentando l'ambiente accademico dell'università bolognese, mi sono accorta del vasto numero di soggetti simili a quel professore che da piccola mi parlava di storia della filosofia orientale. Ma con un tratto caratteriale molto diverso, ovvero quel tocco malsano di narcisismo che rende intollerabile la sopportazione di tali soggetti che invece di nutrirsi di conoscenza, si nutrono della loro apparenza come essere superiori rispetto a coloro che ai loro occhi sono semplici e comuni mortali. Gonfi del loro ego al punto di rischiare di scoppiare, hanno come attività preferita quella di elencare le loro pubblicazioni, i loro titoli, i loro successi. Tutta gente che predica molto, molto bene, e razzola tristemente male. Una brutta specie, insomma, dalla quale ho imparato a tenermi alla larga ben presto.
In tedesco abbiamo un termine per questo fenomeno sociale: si chiamano "Fachidioten", ovvero idioti di una materia, quei soggetti che sanno tutto ma non sanno nulla. Sanno tutto sulla loro materia ma non sanno vivere. Perché fin troppi di loro si perdono in un bicchiere d'acqua quando si tratta di tirarsi su le maniche e mettersi al lavoro perdavvero. Ma la storia davvero triste è che questi esemplari di specie umana sono coloro che formano le nuove generazioni di studenti nelle università italiane, "producendo" palate di studenti pieni di conoscenze empiriche e teoriche senza sapere fare il loro mestiere. Per esempio, io che a Bologna ho studiato scienze delle merendine (leggasi "scienze della formazione") non attribuisco neanche il 5% della mia formazione a ciò che mi hanno insegnato i docenti di quel dipartimento. Questa facoltà sta creando schiere di maestre con ottime doti teoriche e che sanno parlare con una perfetta terminologia professionale, che però non hanno mai ricevuto un allenamento alla professione serio. Alcune si salvano perché sono intelligenti e, invece di studiare a memoria, hanno imparato a imparare da sole.
Tanta teoria ma poco pratica, questo è un problema che si riflette poi nella quotidianità della vita. Tante mie coetanee, ma anche persone più grandi di me, non hanno la minima idea di come capire se un contratto lavorativo è valido o una fregatura, non sanno come muoversi per attivare le utenze di un appartamento, non hanno mai firmato un contratto di locazione, non hanno mai provato sulla loro pelle che cosa significa rivoltare ogni monetina due volte quando fai la spesa alla coop.
Penso ai neolaureati del 2015 che questo autunno andranno ad insegnare nelle scuole primarie. Penso che se io avessi un figlio andrei a fare un voto alla Madonna di San Luca. Penso che pregherei il Signor Universo di far capitare mio figlio nella classe di una persona ignorante, ma che sappia stare al mondo. Una persona che abbia la pazienza di aspettare i tempi di un bambino, una persona che alzi gli occhi al cielo per vedere che tempo fa piuttosto che controllare sullo smartphone, una persona che abbia l'umiltà di riconoscere di non essere onnisciente e il coraggio di ammettere di aver bisogno e desiderio di imparare, tutti i giorni.
Per tornare ai professoroni, che a me piacciono tanto, concludo dicendo che rimarranno sempre il mio feticcio della domenica mattina: gli accademici bolognesi che passeggiano col domenicale del sole sottobraccio sono la mia passione, ma solo da lontano. Perché proprio loro, con la loro arroganza, mi hanno insegnato a tacere quando non ha senso parlare. Sono loro che mi hanno insegnato quanto è prezioso il dono della conoscenza se condiviso nel momento giusto e con una persona realmente interessata alla tua sapienza. Sono loro che mi hanno insegnato ad insegnare senza fare la maestrina, con l'umiltà necessaria per poter adattare l'insegnamento alla persona che mi trovo davanti, mettendomi in gioco in prima persona.
Uno in particolare, stronzo e antipatico come un dito nel culo (scusatemi il francesismo, ma rende l'idea), mi ha insegnato quanto sia importante fare piuttosto che insegnare, e gliene sarò grata per sempre. Invece di spiegare a parole, prendere in mano le manine di un bambino e guidarle. It's that simple.
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